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Le ombre di Ocaña, il campione triste che sfidò Merckx e si arrese a se stesso

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Il 19 maggio 1994 moriva Luis Ocaña. Pubblichiamo un ricordo di Gianni Mura uscito su la Repubblica ringraziando l’autore e la testata. (Fonte immagine)

Uno sparo all’ora di pranzo, nelle cantine della sua tenuta, a Caupenne d’Armagnac. È il 19 maggio del 1994. Luis Ocaña s’è sparato alla tempia sinistra. Strano, perché non è mancino. Alle 13.45 sua moglie Josiane chiama la gendermeria di Condom. Alle 16 all’ospedale di Mont de Marsan si accerta la morte cerebrale. Alle 17, l’ora dei toreri, il decesso. A Bordeaux, dopo l’autopsia, che rivela l’assorbimento di una forte dose d’alcool, il corpo sarà cremato. Funerale alla chiesa di Notre Dame des Cyclistes, a Labastide. Li celebra l’abate Massie, che nella stessa chiesa aveva unito in matrimonio la notte di Natale del ‘66 Luis Ocaña e Josiane Calède, figlia di un camionista, la biondina che aveva consegnato il mazzo di fiori al vincitore del criterium di St. Pierre du Mont. E il vincitore era Luis. Lasciamolo, lasciamoli su questa immagine.

Ocaña si sposa a 21 anni, in Francia è arrivato a 12, la bici l’ha scoperta a 15, andando a lavorare come ragazzo di bottega alla falegnameria di monsieur Ducros, a Aire-sur-Adour, 28 km tra andata e ritorno da Le Houga. Gli Ocaña ci sono arrivati a tappe, partendo nel 1951 da Priego, vicino a Cuenca. Il padre, Luis anche lui, è cardatore di lana. La miseria e il franchismo lo portano prima a Vila, in Val d’Aran, versante spagnolo del Portillon, muratore alla centrale idroelettrica («Con quello che guadagnava si comprava un chilo di pane», ricorderà il figlio), poi oltre frontiera, prima a Magnan (Luis padre fa il boscaiolo nelle pinete delle Lande) poi a Le Houga (contadino in una cooperativa). Luis è il primo di cinque fratelli.

Arriva in Francia a 12 anni e va a scuola senza sapere una parola di francese. Gli altri ragazzi lo trattano come una bestia rara, gli insulti peggiori in una lingua che non conosce, ma capisce dagli occhi, e sputi e sassate. Se ne ricorderà, non prenderà mai la cittadinanza francese. Moglie francese, figli francesi sì, e anche investimenti in Francia, quella vasta tenuta specializzata nella produzione di Armagnac, e anche il tifo dei francesi solo quando sembrava che potesse castigare Merckx, ma prima tiepidino, era pur sempre «l’espagnol de Mont de Marsan», e per gli spagnoli era uno che aveva scelto la Francia. Veramente lui alla Spagna era rimasto legato, sperava in una convocazione nelle rappresentative giovanili, da dilettante andava già forte. «Non vogliamo comunisti in squadra» gli fa sapere Luis Puig, presidente della federciclismo. «Io mi sento più spagnolo del Caudillo. Se in nome della Spagna avessi ucciso, mi convocherebbero. Ma sono solo un ciclista, e comandano loro », commenterà Ocaña. Veramente lui a Priego era rimasto legato, tanto da usare parte dei guadagni per riattare una torre sull’orlo di un precipizio, decorandola in modi che evocavano Gaudì e disegnando di persona tutti i mobili. Era o no un buon ebanista? Ma nella torre, ogni inverno, entravano i ladri, sistematicamente portavano via elettrodomestici e tutto quanto potesse essere facilmente smerciato. Finché Ocaña decise di vendere la torre e proprio lui, etichettato comunista fin dalla nascita, con parenti per parte di madre e di padre che avevano combattuto coi repubblicani nella Guerra civile, da ex campione divenne sostenitore di Le Pen, cioè dell’estrema destra, «cioè della sicurezza», puntualizzava lui. Una delle tante contraddizioni.

Era figlio ribelle di un padre molto autoritario (per correre la prima gara falsificò la sua firma, e arrivò decimo. La seconda la vinse) e diventò padre autoritario di un figlio ribelle: non gli andava bene quasi nulla di Jean-Louis, a cominciare dall’orecchino. E anche Sophie, la figlia, doveva proprio mettersi con un italiano così più anziano di lei, e per giunta anche lui con l’orecchino? Per un’altra delle tante contraddizioni, anche Ocaña s’innamorò di una ragazza molto più giovane di lui: Marie-Jo, figlia di un ex ciclista spagnolo che abitava dalle parti di Narbonne. E le aveva promesso che presto per lei avrebbe lasciato Josiane. Anche questa storia fa parte del colpo di pistola finale. Ma adesso si può tornare indietro, a differenza che nella vita. Luis Ocaña è un marito felice, un giovane campione e i suoi punti di riferimento sono l’abate Massie e Pierre Cescutti. Due persone singolari. Pio XII nel 1948 aveva proclamato la Madonna del Ghisallo patrona mondiale dei ciclisti. L’abate cerca di rilanciare la sua chiesetta del 1100, costruita sulle rovine di una fortezza dei Templari, e va in bici da Labastide al Vaticano, chiedendo una mano a Giovanni XXIII. Che non può ovviamente smentire il suo predecessore, ma concede all’abate il diritto di chiamare la chiesa Notre Dame des Cyclistes.

Pierre Cescutti, che ha fatto fortuna con un’impresa edile, ha radici friulane (Spilimbergo) ed è stato decorato come eroe di guerra dal generale De Gaulle. È stato anche uno dei primi a penetrare a Berlino nel bunker di Hitler. «C’era un sacco di bottiglie di vino pregiato. Quella sera ho preso la prima e unica sbronza della mia vita». Cescutti ha molti interessi, fino a 92 anni andava in giro per le scuole a raccontare la Resistenza. Gli piaceva disegnare, dipingere, e su quella strada aveva incoraggiato Ocaña. Cescutti è anche presidente del club ciclistico di Mont de Marsan, i cui colori veste Ocaña. «Correva come un cane arrabbiato. Un talento eccezionale e fragile», dirà Cescutti. Il cane resterà arrabbiato per sempre, ma dipingerà quadri delicati, nature morte, e un bellissimo ritratto del padre. Forse avevano fatto pace il giorno che Ocaña vinse a Munguia il titolo nazionale a cronometro, salì in auto e correndo come un pazzo, cioè come al solito, arrivò all’ospedale di Mont de Marsan, dove un tumore allo stomaco stava finendo di mangiarsi Luis padre, che non aveva ancora 50 anni. E gli mise sul letto la maglia coi colori della bandiera, giallo e rosso.

«La prima volta che vidi piangere mio padre, non so se per la gioia o per i dolori». Anche questo c’entra con lo sparo. Dopo due Tour dominati, Merckx è il Cannibale. El Puta lo chiama invece Ocaña. «Se lui sta bene, attacca. Giusto. Se lui non sta bene, nessuno lo attacca. Sbagliato. Solo i codardi si rassegnano prima di provarci e riprovarci ». Questo per dire come non avesse molti amici, in quel Tour 1971 che partiva al nord, toccava Roubaix, passava per il Belgio («las rutas del Puta») poi scendeva verso Alpi e Pirenei. «Luis ha più numeri di me», diceva Eddy, ma non era vero. Lui era di un filo migliore a cronometro, Ocaña in salita, ma in volata non c’era storia. «Se corresse con la testa vincerebbe molto di più», diceva Merckx, e questo era vero. Per Ocaña il ciclismo non era una partita a scacchi, una guerra di posizione. Era combattimento, era come sul ring, devi colpire l’avversario al minimo segno di debolezza, e poi ancora, e poi finirlo, se ci riesci. «Luis era una della vecchia guardia, per lui il ciclismo era soprattutto una questione di palle», diceva Delgado. Ocaña sonda il terreno sul Puy de Dome, stacca Merckx di pochi secondi. Aspetta le Alpi. In piazza, a Grenoble, fa caldo. Il sole forte è con Ocaña, Merckx lo patisce. Ocaña patisce pioggia e freddo. «Hoy o yo entierro a Merckx o el me entierra a mi», ci disse prima di partire. Ultimi 70 km da solo, a Orcières Merlette Merckx becca 9′. «L’empereur fusillé», titola l’Équipe. «Luis ci ha matati tutti, me per primo, come El Cordobes fa coi tori», dice l’imperatore deposto, che non si rassegna. Giorno di riposo e poi tuffo verso Marsiglia, 251 km in una fornace, 251 km di fuga di Merckx con un pugno di uomini, 45,351 di media, arrivo al Vieux Port con 90′ d’anticipo sulla tabella oraria più veloce.

Doveva essere una tappa tranquilla, di trasferimento. Ma con Merckx e Ocaña la tranquillità andava fuori corso e fuori corsa. Ocaña perde due minuti abbondanti, gliene restano più di 7. E arriva la tappa cruciale, sui Pirenei. Fuga di Fuente, ancora gran caldo, ma salendo verso la cima del Col de Menté tutto diventa buio, comincia a piovere, Merckx scatta e Ocaña gli va a ruota. In discesa, bomba d’acqua e poi chicchi di grandine come uova di piccione. Merckx sbanda, urta un muretto e resta in equilibrio. Ocaña urta lo stesso muretto e rimbalza a centro strada, che è solcata da rivoli di fango. Arriva Zoetemelk che non può frenare e lo centra in pieno, poi s’ammucchiano anche Agostinho e Lopez Carril. Ocaña è tutto un dolore, lo portano in elicottero all’ospedale di St. Gaudens. Sul Portillon Ocaña pensava di dare la stoccata definitiva e sul Portillon la Spagna aspetta il «suo» (adesso sì) Ocaña, ma dalla radio apprende che non è più in corsa e ne fa le spese Merckx: insulti e sputi, qualche pietrata. Merckx non vuole indossare la maglia gialla a Luchon. «Non la merito». Non la vuole nemmeno il giorno dopo, ma i regolamenti parlano chiaro e Albani e Driessens lo convincono: vuoi regalare il Tour a corridori che lo meritano meno di te? E Merckx riparte in giallo proprio da Mont de Marsan.

Senza la caduta avrebbe vinto Ocaña. Ma le cadute fanno parte della corsa, come la maledizione della bomba d’acqua, dopo un quarto d’ora era tornato il sereno. Non ci sarebbe stata rivincita, nel ‘72 Ocaña tornò a casa per una broncopolmonite, nel ‘73 vinse il Tour dominandolo (6 vittorie di tappa) ma Merckx non c’era. Era un’ombra, un’ossessione. Aveva un pastore tedesco, Rex, ma l’aveva ribattezzato Merckx. «Merckx vieni qui. Merckx fa cuccia. E ricordati che sono io il padrone», diceva Ocaña. L’ha raccontato la moglie. Come ha raccontato che in vita Luis aveva letto un libro solo, «Don Chisciotte». Il gusto della sfida gli era rimasto. Una sera, prima di una kermesse in Belgio, sfidò Merckx a chi reggeva di più l’alcol. «Una bottiglia di vodka e una di gin, pareggio, ma a lui l’hanno portato in camera i meccanici, io son salito con le mie gambe». Ma con le sue gambe, il giorno dopo, la kermesse l’avrebbe vinta Merckx. Il 19 maggio del ‘94 Ocaña telefona a Juan Hortelano, il suo più fedele amico. «Litigio tremendo con Josiane. La faccio finita ». E telefona a Marie-Jo per dirle addio. Al suicidio non credono né la madre di Ocaña né i suoi fratelli, che in luglio presentano una denuncia per omicidio contro ignoti. E nemmeno il figlio, Jean Louis, che arriverà a denunciare come sospetta d’omicidio sua madre, in un crescendo da tragedia greca. Ogni volta l’inchiesta conclude che fu suicidio. Chi dice per motivi economici (un paio di vendemmie andate male), chi per motivi di salute. In uno degli incidenti d’auto Ocaña aveva perso l’occhio sinistro e con le trasfusioni aveva contratto un’epatite C, ma temeva di avere lo stesso male di suo padre.

Josiane ha venduto la tenuta, saldato i debiti e vive a Pau. Non s’è risposata, è sempre la vedova Ocaña e partecipa ad ogni iniziativa che ricordi Luis, incluso un criterium a Pipriac, in Bretagna. Conserva un’urna con un pugno di ceneri. Un’altra sta a Priego, sotto a un piccolo monumento con pochi fiori. Il resto, corre voce sia stato sparso sulla linea di confine, sui Pirenei, ma forse è un tocco poetico. A Ocaña ho voluto bene per il coraggio, la coerenza, la sfrontatezza anche, e il suo essere contro. Contro Merckx, contro tutti, alla fine anche contro se stesso. La sua più dolorosa sconfitta è ricordata più delle 110 vittorie. «La cosa più bella del ciclismo è quando vedi il dubbio e poi la sconfitta negli occhi dell’avversario. Il resto è secondario, anche le vittorie, anche i quattrini, anche la gloria». Né spagnolo né francese, comunista e fascista, contadino e pittore, sole e buio, forse la sua patria vera era la strada. Invito chi voglia saperne di più e conosca lo spagnolo a leggere «Ocaña», circa 400 pagine scritte dal mio amico Carlos Arribas del Paìs (info@cultura-ciclista. com), libro uscito da pochi mesi. E ricordo Luis con le parole scritte da Antoine Blondin, poeta mascherato da suiveur, nume tutelare degli anziani suiveurs riciclati in précedeurs: «C’était un géant, c’était un seigneur, et c’était le soleil».


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